Autismo, ricerca e clinica, un triangolo ostico. Si è parlato di questo alla giornata di studio ‘L’importanza della dimensione espressiva nelle situazioni di disagio’, promossa dall’Osservatorio italiano studio e monitoraggio autismo (Oisma), dall’Istituto di Ortofonologia (IdO) e dall’Università La Sapienza di Roma lo scorso 14 giugno. Ad evidenziare i limiti della ricerca sono i numeri. “Nell’ambito dei disturbi dello spettro autistico osserviamo soprattutto una ricerca del metodo. Molti studi non sono tanto interessati a quello che devono scoprire quanto al metodo, che sia rigorosamente scientifico e ripetibile. Questo è un limite per l’autismo”, afferma Rosaria Ferrara, presidente dell’Oisma. La studiosa parte dalla clinica per poi approdare alla ricerca: “Nei database che raccolgono la letteratura scientifica più importante sull’autismo, alle parole ‘Autism+Dsm5’ corrispondono 60 articoli effettivi pubblicati negli ultimi 5 anni. Se cerchiamo ‘Autism+Età adulta’ troviamo solo 2 articoli. Se continuiamo con ‘Autism+Teatro’ abbiamo solo 7 articoli, con ‘Autism+Arte’ ne emergono 13 effettivi e solo 5 parlano del legame tra il mondo fisico e l’arte intesa come riabilitazione o sbocco di vita, carriera. Infine, con ‘Autism+Lavoro’ gli articoli pubblicati sono 12 e senza limiti di tempo. Alcuni risalgono al 1996”.
Ferrara sfata un altro mito: “Quando parliamo di autismo pensiamo ad 1 famiglia su 68, perché’ il disturbo riguarda tutto il nucleo familiare. Rispetto al ritardo cognitivo associato all’autismo, invece, le percentuali non sono così gravi come si immagina: circa il 32% dei soggetti con autismo riporta ritardo, gli altri hanno un Quoziente intellettivo (Qi) che nel 24.5% dei casi rientra in un range borderline e per il 44% nella norma o superiore”. La ricerca s’interessa poco della qualità di vita dei ragazzi e delle loro famiglie per dare maggior spazio possibile ai criteri di severità, di scientificità ed oggettività. Tali pretese, però, si sono rivelate completamente utopiche Lo dimostra “uno studio importante condotto dal professore Owen Whooley nel 2016 sulla dimensionalità della diagnosi nell’autismo, con tre livelli di severità, prevista dal Dsm 5.
Il docente universitario- continua- ha intervistato 30 esperti suddivisi in piccoli gruppi. In quanto ricercatori affermati sull’autismo erano stati radunati per definire quali fossero i criteri di severità o meno del disturbo. La task force si è rivelata un completo fallimento, provando che ricercatori e clinici hanno obiettivi completamente differenti”. Ferrara sta conducendo un dottorato sulla diagnosi di autismo. “Seguo due casi- prosegue il presidente Oisma- un bambino muto e catatonico e un bambino iperattivo che nel momento in cui lo stavo valutando ha provato a lanciarsi dalla finestra tre volte, oppure distrugge tutto quello che si trova a portata di mano o ancora aggredisce l’altro. Chi è più grave tra i due? – domanda la presidente Oisma – La severità non è così facile e categoriale, e non possiamo avvalerci solo dell’osservazione.
Parlare di categorialità significa fare fuori tutta una sorta di sfumature fondamentali nell’autismo”. La scienza “non deve tramutarsi in una religione, non può dare risposte a tutto. Così come non è sempre possibile provare tutto a tutti costi e la ricerca del metodo a tutti i costi. La scienza deve abbracciare tutta una serie di questioni più sociali e meno attinenti al metodo”. Un’ultima battuta sulla plasticità cerebrale: “È un concetto ponte tra la scienza e la singolarità di ciascun soggetto. La plasticità cerebrale è l’effetto che l’esperienza lascia sulle esperienze neuronali, è una traccia. Da qui i tre paradossi della plasticità neuronale che riguardano anche i soggetti con autismo: l’unicità, la discontinuità e il cambiamento permanente. A mio avviso trattare l’autismo significa pianificare progetti di vita, tenendo conto delle attitudini e delle abilità del soggetto per proiettarle nel futuro. L’unica evidence based dell’autismo- conclude Ferrara- è la sua complessità”.